Ut photographia poesis
La fotografia di Giancarlo Mancori come poesia
Parafrasando la celebre formula del poeta Orazio, ut pictura poesis (Ars poetica, 361), possiamo forse applicare alla fotografia lo stesso peculiare rapporto dialettico che pone a confronto le arti visive (poesie mute) e la letteratura (poesia parlante). Il dilemma è se le arti possano rendere i sentimenti e i concetti astratti nella concretezza della materia e se la poesia possa accendere nel lettore immagini fedeli all’oggetto della sua descrizione, nello stesso modo in cui le raffigurazioni le restituiscono a noi.
Al rapporto tra testo e immagine e alle loro zone di interferenza i critici hanno dedicato proprio nel corso del XXI secolo ampio spazio, sottolineando più volte come il linguaggio letterario abbia sperimentato metodi per accrescere le possibilità figurative, così come il linguaggio visivo abbia messo in atto una sorta di paratassi metanarrativa. I rapporti tra letteratura e fotografia sono affascinanti e mostrano in che modo l’una e l’altra si nutrano vicendevolmente e in quale maniera si ridefiniscano in continuazione.
La fotografia come narrazione poetica (ut photographia poesis) è il cartellino che si può accostare agli scatti che Giancarlo Mancori realizza, i quali sono l’equivalente dello scrittore che racconta in versi ciò che vede e che emozionalmente prova. Ma le immagini non hanno che un’azione da esprimere, mentre la poesia può marciare in versi inesauribili: il poeta procede finché ha fiato mentre l’artista deve trattenere il suo, deve concentrare e accorciare il vigore del respiro.
Un battito d’ali, una corsa infinita, uno sguardo intenso, una folata di vento, le orme nella neve, l’impalpabilità della luce sono descritti in milioni di versi ma sono ugualmente rivelabili – e con che forza! – nelle fotografie di Giancarlo Mancori: queste non sono soltanto immagini, sono il soggetto colto nella sua tridimensionalità, sono artefatti materiali e visione di esseri viventi. La rappresentazione fotografica che ci dona Mancori racconta storie e invia messaggi, al pari delle arti sorelle e al pari della letteratura; i suoi scatti svelano gli animali nel loro elemento e restituiscono un’essenza della vita che poeticamente incanta.
Le lastre poi mostrano l’attenzione che Mancori riserva alla luce (elemento tanto caro ai pittori), la quale, assieme alla fauna e alla flora, è colta sempre nel momento giusto, nel momento dell’idillio con la natura e crediamo che essa abbia saputo insegnare al fotografo più di qualsiasi altra istruzione formale.
Si possono richiamare e accostare all’arte fotografica di Mancori la produzione e la maestria evocativa di altri fotografi, italiani e non, e ci piace fare i nomi dell’americano Jim Brandenburg (classe 1945) e del francese Vincent Munier (classe 1976), entrambi mirabili interpreti della natura, che tiriamo in campo non solo per assonanze ma per sottolineare come il lavoro di Mancori sia, come per i due fotografi citati, il frutto e l’impegno di una vita. La sua fotografia è alimentata dalla natura, quella aspra e allo stesso tempo accogliente del “Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise” e le immagini raccolte nel volume descrivono quei luoghi e raccontano degli incontri con gli animali che popolano quelle montagne e quelle valli.
Mancori fotografa il tempo che scorre, di stagione in stagione, e lo fa con un occhio attento e consapevole, ma soprattutto con un sapore poetico che silenziosamente esprime un urlo di gioia.
Margherita Fratarcangeli